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Sant' Acacio di Amida Vescovo

9 aprile

sec. V

Vescovo di Amida, uomo di fede e di azione, intrecciò la sua storia con le vicende politiche e religiose della Persia del V secolo. Ambasciatore di Teodosio II presso il re sassanide Iezdgerd I, Acacio si trovò a mediare tra le due potenze in un periodo di tensioni crescenti. La sua fama è legata all'episodio dei settemila prigionieri persiani deportati dai Romani: Acacio, commosso dalla loro sofferenza, vendette i vasi sacri della sua diocesi per riscattarli e convertirli al Cristianesimo. Un gesto di carità cristiana che gli valse la stima del re Baharam V e l'ammirazione dei posteri. La sua figura, però, rimane sfuggente: le fonti storiche, frammentarie e talvolta discordanti, non ci permettono di ricostruirne appieno la personalità e le vicende. La sua stessa santità è stata messa in discussione da alcuni studiosi, che lo accusarono di nestorianesimo.

Etimologia: Acacio = Acazio, Achazia

Martirologio Romano: A Diyarbakir in Mesopotamia, oggi in Turchia, sant’Acacio, vescovo, che, per riscattare dei Persiani fatti prigionieri e sottoposti a crudeli torture, persuase il clero e arrivò a vendere ai Romani anche i vasi sacri della Chiesa.


 Nell'anno 419-20 Acacio, vescovo di Amida (località della Mesopotamia sulla riva sinistra dell'alto Tigri, attuale Diarbekir), fu scelto dall'imperatore Teodosio II come ambasciatore presso il re dei re, il sassanide Iezdgerd I (399-420). Ospite del re dei re a BethArdasir (residenza estiva dei sassanidi, mentre Ctesifonte era la residenza invernale) era anche il patriarca d'oriente Yahbalahã I, il quale, sollecitato da visite e da lettere di vescovi persiani che consigliavano l'approvazione in un sinodo dei decreti dei precedenti concili, decise di rendere letterale l'osservanza dei canoni di Seleucia (410) e di adottare i canoni di Nicea, Ancira, Neocesarea, Gangra, Antiochia e Laodicea. Yahbalahã I indisse, quindi, un sinodo nel 420 a Seleucia, di cui gli atti ci sono pervenuti. Secondo gli atti di Dadiso, l'intervento di Acacio fu necessitato da uno scisma che minacciava la priorità di Yahbalahã I e il suo cattolicato. Necessità che non traspare dagli atti del concilio, per quanto si possa facilmente inferire, essendo particolarmente ambigua in quel tempo la situazione della chiesa persiana sotto una dinastia votata al più rigido nazionalismo e alla restaurazione minuziosa delle tradizioni iraniche, ostile a qualunque influenza che provenisse dall'occidente.
Con l'apertura dell'ostilità tra Romani e Persiani (42l-22), Acacio ritornò ad Amida dove gli giungeva eco delle stragi e delle devastazioni compiute dai Romani in quella delle cinque province al di là del Tigri che andava sotto il nome di Arzanene. La miserabile condizione in cui versavano settemila Persiani deportati, che i Romani lasciavano morire di fame, lo mosse a pietà. Acacio radunò il clero della diocesi, spiegò che la magnificenza del Signore non poggia sulla suppellettile dei suoi templi e vendette i sacri vasi per sfamare la moltitudine e pagare ai Romani il riscatto. Convertiti i prigionieri dal madzeismo, che sotto i sassanidi era stato riconosciuto religione di stato, e impartito loro il battesimo li rimandò al re Baharam V (420-438), successore di Iezdgerd, che, stupito dalla singolarità del gesto, lo volle presso di sé per ringraziarlo. Di qui il probabile secondo viaggio di Acacio in Persia (422), di cui si servì l'imperatore Teodosio per i negoziati di pace. Alcuni autorevoli critici identificarono la missione di Acacio (419-420) con quella che Socrate (Historia ecclesiastica, VII, 21) aveva posto nel 422 sotto il regno di Baharam V; e questo arbitrariamente, perché Socrate, essendosi limitato a riferire l'invito del re dei re in seguito all'episodio dei settemila prigionieri, non escluse la possibilità di un precedente viaggio di Acacio in Persia. Del resto il suddetto episodio non avrebbe avuto motivo di essere prima del 420, anno dell'apertura delle ostilità.
Per porre nella luce che gli è propria lo stesso atto di Acacio, bisogna tener conto della commistione dei problemi politici e religiosi per cui il santo, conosciuta nel primo viaggio la reale situazione dei cristiani di Persia, per caldeggiare, poi, con una autorità la loro causa, poté oculatamente aver desiderato di ingraziarsi Baharam V. Il quale, però,  secondo l'anonimo della passione di Péroz , durante la persecuzione da lui medesimo indetta, non esitò a distruggere una chiesa fondata da Acacio a Maskenã e ad incamerarne la splendida suppellettile nei magazzini reali.
Sembra che Acacio abbia composto lettere commentate di Mari di Beth Ardasir. Baronio affermò di aver letto il nome di Acacio nei menologi; i Bollandisti, invece, non ne trovarono alcuna traccia nei menologi e nei sinassari, e spiegarono quest'assenza come una tacita accusa di nestorianesimo, il movimento condannato nel 431 dal concilio di Efeso che i sassanidi tollerarono o persino protessero, soprattutto da quando (489) fu bandito come eretico dall'impero bizantino. Unica fonte di Baronio e di Cassiodoro è Socrate. Giovanni Molano, teologo di Lovanio, deriva la menzione di Acacio da Cassiodoro, come Canisio nel Martirologio germanico. Dal Martirologio germanico proviene la menzione del Martirologio Romano al 9 aprile che manca, come lo stesso nome di Acacio, nei più antichi martirologi. Fino al XVII secolo le reliquie di Acacio erano conservate nella chiesa di San Giacomo Maggiore a Bologna, ma non si poté mai accertare se appartenessero a lui o all'omonimo vescovo di Melitene.


Autore:
Maria Vittoria Brandi


Fonte:
Bibliotheca Sanctorum

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Aggiunto/modificato il 2011-07-21

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